Esempio di integrazione e senso di solidarietà, il Comune di Santo Stefano ha giocato un ruolo da protagonista nell’emergenza profughi.
Non solo perché è stato tra i primi a rispondere presente all’appello lanciato nella primavera del 2011, quando l’ondata di sbarchi a Lampedusa costrinse lo Stato a cercare sistemazioni per i libici in tutta Italia. A Santo Stefano l’integrazione si è concretizzata anche con un triplice matrimonio, celebrato in una mattina di marzo dell’anno scorso fra tre giovani ragazze del posto e tre loro coetanei in fuga dal Niger, la Nigeria, il Gambia.
Un amore sbocciato ai piedi delle Dolomiti e che ha portato in Comelico anche un fiocco rosa: tre mesi da una delle coppie è nata una bimba. Quando il sindaco Alessandra Buzzo apre il libro dei ricordi, fitto di pagine che raccontano l’ultimo anno e mezzo, si emoziona: «È stata un’esperienza bella ma anche difficile, per diverse ragioni», inizia. Non lo dice, il sindaco, ma è chiaro che non era facile far accettare la presenza dei profughi in un paese piccolo, dove tutti si conoscono e dove chi è diverso scatena sempre quel misto di paura e diffidenza che nascono dalla non conoscenza.
Il sindaco si è impegnato in prima persona nel processo per l’integrazione dei ragazzi, riuscito, ha avviato le pratiche per adottarne uno e ha dato la sua benedizione ai matrimoni multiculturali. «Resto convinta che quello che abbiamo fatto era l’unica cosa possibile», continua la Buzzo. «Non avremmo potuto fare altrimenti. L’accoglienza, in condizioni critiche come quelle che vivevano i profughi, era doverosa, e ci ha permesso anche di aprirci ad altre culture, di avviare una riflessione».
Oggi a Santo Stefano sono rimasti solo quattro profughi, che per altri due mesi riceveranno assistenza. Anche loro sono stati informati per tempo che avrebbero dovuto camminare con le proprie gambe con l’anno nuovo, e si stanno organizzando: «Andranno in Svezia, dove hanno degli amici o dei parenti», conclude il sindaco. «È giusto così, ora devono affrontare la vita. In questo anno e mezzo abbiamo sempre avuto, in media, tra i dieci e i dodici profughi nel nostro comune. Ragazzi svegli, volonterosi, che si sono impegnati per integrarsi e per fare qualche lavoretto. Davvero dei bravi ragazzi». Parole che suonano da addio, di un’esperienza che si chiude e che lascia una traccia.
(a.f.)
Fonte: Corrierealpi.gelocal.it