Un racconto ambientato in Cadore tratto dal Romanzo “Zoe” di Francesco Vidotto, Minerva Edizioni 2013, www.francescovidotto.com
Illustrazione di Eros Lisci
Era la fine del mese di giugno e il bosco di Tai incendiava del verde acceso dei germogli di larice.
Tutti quanti, in paese, si preparavano a festeggiare l’estate: Chino, il falegname, intagliava strumenti musicali per i più piccoli, Tilde, al forno, profumava l’aria con pane, focacce e canditi, Siro, il pastore, canticchiava canzoni al suo gregge, Ori, al bar, offriva bicchieri di novello e perfino Trinca, l’ubriacone del villaggio, seduto su di una panchina a bordo strada, regalava sorrisi sdentati ai passanti mentre, come colazione, inzuppava del pane nel vino. In questa maniera il paese salutava la primavera e abbracciava i mesi caldi che avrebbero regalato erba grassa e cieli celesti.
Anche nel bosco, all’ombra degli alti abeti, sopra spessi tappeti di muschio, qualcosa si stava muovendo.
Nascosta agli occhi dei paesani la natura era in fermento: il vento soffiava e scuoteva i rami e mormorava.
Quando il sole si nascose all’orizzonte una falce di luna spuntò e con lei alcuni cerbiatti fecero capolino sulla radura sopra Col Vacher, una prato dal quale ci si poteva affacciare su di un mare di stelle.
Giunsero di li a poco le timide marmotte e i galli cedroni e i cervi e le martore e gli scoiattoli, tutti immobili, in attesa di qualcosa.
Di li a poco una colonna di folletti del color dell’erba, con strette in mano minuscole lanterne e altri strani arnesi, si fece largo nel buio fino al centro del grande giardino. Gli animali li lasciarono passare e li seguirono e li si strinsero attorno. Mildi, il più alto dei folletti, batté tre volte il piede per terra, tirò su con il suo lungo naso e spalancò le braccia in attesa.
Si fece silenzio. Anche il vento cessò.
Schiarì la voce, si guardò attorno, abbassò l’ossuto dito e alle sue spalle scoppiò la musica. Gli ometti verdi, armati di ocarine e flauti e tamburi e voci presero a cantare e tenere il ritmo e bere un nettare giallognolo molto simile alla birra. Gli animali si muovevano e saltavano e si strofinavano i nasi: i lupi con gli stambecchi e le volpi con le lepri. Tutti a ballare e gioire insieme per l’estate che arrivava.
Alcibiade, il grillo, saltava come un forsennato tra quella gran folla di zampe e piedi pelosi e cantava a tutta voce.
Si arrampicò sulla schiena di Bruno, l’orso, e fra le corna di Alce per cercare di farsi vedere, di cantare anche lui, ma nessuno lo notò. Triste chiuse la bocca, si sedette fra gli steli d’erba con tutte e sei le braccia conserte e decise di andarsene. In pochi balzi fu ai margini del prato e ancora oltre. Si addentrò nella foresta solitario. Continuò a saltellare fin quando non sentì più musica, fino a dove, uno squarcio fra gli alti rami, lasciava penetrare i pallidi raggi della luna. Qui si fermò.
Balzò su di una larga foglia, assaporò il silenzio denso della sera, sorrise, gonfiò i polmoni, rivolse l’ugola al cielo e prese a frinire e a salutare l’estate a modo suo, riempiendo quell’attimo del suo solo canto.
Dal prato, di fronte a lui, una stella si alzò in volo: era Genoveffa la lucciola.
Stregata dal quel suono solitario ballava nell’aria, accarezzando gli arbusti e volteggiando tra i rami.
Accadde che Genoveffa, dall’alto, vide che quel suono proveniva diritto dai polmoni di Alcibiade. Gli si avvicinò, in un turbine di scintille luminose, e lo osservò, diritto sulle zampe, composto e dignitoso, mentre con il viso al cielo e gli occhi chiusi cantava meglio che poteva.
Rimase immobile davanti a lui: una luce fragile nel buio di quella sera d’inizio estate fino a quando, per prendere fiato, spalancò i suoi occhi di grillo e si guardarono.
Alcibiade negli occhi di Genoveffa vide il mistero che le permetteva di brillare e Genoveffa, negli occhi di Alcibiade, vide il mistero che gli permetteva di cantare e l’amore accadde.
Così, semplicemente, nel buio, mentre erano impegnati a fare tutt’altro, la vita li sorprese.
E la sera, che non centrava nulla e solamente esisteva, schiacciò un sorriso e, una stella, cadde giù.