Un racconto ambientato in Cadore tratto dal Romanzo “Zoe” di Francesco Vidotto, Minerva Edizioni 2013, www.francescovidotto.com

Illustrazione di Eros Lisci

Era autunno inoltrato e i boschi del Cadore incendiati di rosso e di giallo. Leone viveva in una casa in legno ai margini del bosco con la figlia Vera. Sua moglie era salita in cielo solo un anno prima, dando alla luce la loro bambina e nuvole, quel giorno, filavano schiaffeggiate dal vento e l’inverno si preannunciava rigido e bianco.
Leone controllò la legnaia: era quasi vuota. 
Entrò in casa, con le mani ruvide e grandi rimboccò le coperte alla figlia che dormiva serena, prese la scure, la infilò nella gerla e si incamminò tra gli abeti.  Non trascorse molto che si mise al lavoro tagliando rami e arbusti con mano esperta quando, d’un tratto, mentre era chino su di un tronco, con la coda dell’occhio gli parve di vedere qualcosa muoversi svelto.  Alzò la testa guardandosi attorno in silenzio. Il bosco era immobile. 
Leone riprese il suo lavoro ma di nuovo un movimento. Veloce. Fulmineo. Questa volta era sicuro dei suoi occhi. Non poteva sbagliarsi. Afferrò la manèra con le due mani e si diresse spaventato proprio verso un vecchio larice poco distante. 
“chi c’è?” domando con voce grave. Nessuno parlò
“chi c’è?” – ripeté Leone – “ti ho visto. Vieni fuori o io …”
Proprio mentre diceva queste parole qualcosa si mosse. Due occhi rotondi e vispi spuntarono da dietro l’albero, sotto un cappello di stoffa marrone tutto sgualcito. 
Lo guardarono fisso. Una mano, nodosa, verde e magrolina fece capolino carezzando la spessa corteccia e poi, con un movimento veloce come il lampo, quel piccolo essere sgusciò fuori dal nascondiglio e in un attimo fu a pochi centimetri da Leone che non aveva avuto nemmeno il tempo di muovere un muscolo.
Era basso, con scarpe di foglia cucite insieme da fili d’erba, gambe rinsecchite e muscolose e orecchie verdi e a punta che si muovevano come radar. Al centro della faccia, di poco sotto ai grandi occhi, un naso sottile e lungo, nascondeva la bocca ripiegata in una smorfia di sorriso beffardo. 
Leone era atterrito. Non sapeva cosa fare ne che pensare. Così, l’unica cosa che riuscì a dire fu: 
“c…chi sei tu?”
L’ometto gli piazzo gli occhi negli occhi mentre muoveva le orecchie a destra e a sinistra.
“chi sono io?” – sbottò poi con voce stridula – “oh bella questa. Chi sono io mi chiede! Ho Ho Ho! E dimmi.. chi saresti tu invece? Cosa molto più interessante!”
“io … io … il mio nome è Leone”
“Leone? Ma è un nome anomalo. Anamalo. Sì insomma.. di animale! Chi mai hai potuto darti un nome simile. Beh Beh … non importa. Io comunque sono Mildi”
“Mildi? E … sei uno gnomo??? ”
“Uno gnomo! Sentite! Uno gnomo! Ma come può venirti in mente. Uno Gnomo! Questa poi. Ho un cappello rosso?? Ho la barba?? I Baffi?? Eh.. rispondi”
“n.. no” 
” e allora come potrei mai essere uno Gnomo! Sono un folletto. Non si vede? Santi numi! Sono Mildi, il folletto, e sono un cercatore”
“un cercatore?”
“già, un cercatore. Hai capito! Sei sordo?”
“e … cosa cerchi?”
“cerco uomini. Sono un cercatore di uomini. Anzi .. per meglio dire… cerco un uomo solo. Cerco un uomo. Sì. Questa è la risposta giusta. Un uomo per me. Una donna forse”
“e .. come lo cerchi?”
“senti che domande. Eh sì che sembri intelligente! Come dovrei cercarlo un uomo secondo te? Con il naso… è ovvio!”
“oh certo” – borbottò Leone – “è ovvio”
“anzi … posso annusarti? Me lo permetti?”
Senza attendere risposta Mildi prese a girare attorno a Leone ficcando il naso dappertutto.
“no … non sei tu … non sei tu … ” ripeteva con un filo di voce, poi gli annusò le mani e si bloccò, pietrificato, e gli occhi presero a roteare e le orecchie a vibrare.
“eccolo!!!” – disse poi – “eccolo” e stramazzò in terra.
Leone in principio non capì. Quando Mildi rinvenne non si staccò un attimo dal suo nuovo amico. Lo seguiva tra gli alberi, gli girava attorno, gli stava tra i piedi.
“ma insomma … mi dici che vuoi??”
“conoscere quell’odore” rispondeva Mildi
“quell’odore è il mio. Sono io”
“non dire stupidaggini. Tu sei un burbero! Quell’odore è di zucchero”
Così trascorse il giorno e la sera Leone rincasò con Mildi che non volava saperne di lasciarlo. Lo seguì fino a casa.  “Ecco. Io sono arrivato” – disse sulla soglia – “mi spiace ma qui non puoi entrare. Nemmeno ti conosco”
Non aveva finito di parlare che Mildi già non c’era più. Come un lampo si era intrufolato nella baita e la stava mettendo a soqquadro annusando in ogni dove fin quando giunse alla culla di Vera e qui si fermò. Sentì un brivido, afferrò dolcemente con le sue esili mani le sbarre in legno del lettino e ci infilò dentro il naso e inspirò. 
I suoi occhi si fecero di miele e Mildi si innamorò perdutamente di Vera e del suo odore. 
Da quel giorno il folletto non abbandonò più la casa di Leone. Rimase al fianco della bimba che amava e passarono i mesi e gli anni e Vera cresceva fino a diventare ragazza e poi donna e si era talmente abituata ad averlo vicino che non poteva nemmeno provare ad immaginare una vita senza di lui. 
Mildi, dal canto suo, in tutti quegli anni era cambiato. I primi tempi se ne stava ore ed ore in adorazione della sua amata poi, seppur stregato dall’odore di lei, a volte guardava nostalgico dalle piccole finestre i boschi verdi e qualcosa gli si muoveva dentro. Non avrebbe saputo dire che cosa, certo è che qualcosa c’era. 
Accadde un giorno un fatto davvero strano per un folletto. Era primavera inoltrata quando Mildi prese il raffreddore. Mai, nel suo popolo, si udì cosa simile, che i folletti sono immuni a tutte le malattie. Fatto sta che quell’anno Mildi si ammalò e il suo lungo naso si tappò.
Non riusciva più a sentire l’odore stregato della sua amata e le catene di cristallo che lo tenevano legato a lei si sgretolarono. 

Mildi passava sempre più tempo alla finestra, con il cuore nei boschi. 
Vera era molto offesa da questo suo nuovo comportamento e ne soffriva, e Leone, di tanto in tanto, accendeva la pipa e, seduto in poltrona, guardava l’antico amico folletto presagendo già il futuro. 
Accadde una mattina che padre e figlia si alzarono e trovarono la finestra della cucina spalancata, un paio di biscotti sgranocchiati e nessuna traccia di Mildi. 
Vera scoppiò a piangere. Il cuore traboccava di tristezza. Avrebbe voluto morire. Leone cercava di consolarla con parole di padre, senza riuscirci.
Mildi era ritornato nei boschi, a casa, perché solamente con il naso tappato, scherzo del destino, aveva finalmente conosciuto l’odore meraviglioso della libertà.
Aveva deciso di andarsene in silenzio. Qualsiasi parola sarebbe stata troppo dolorosa e inutile ma lui, quella cosa, la doveva proprio fare. Dopo tutto era folletto e, solamente tra folletti, avrebbe potuto esistere quell’amore che ti fa svegliare all’alba in cima ad un abete bianco e sgranocchiar radici o che ti fa addormentare la sera su un masso in alta quota, abbracciati, coperti solo di polvere di stelle. 
Mildi capì tutto questo annusando per la prima volta la libertà e fece l’unica cosa possibile: la inseguì.
Trascorse il tempo e la ferita nel cuore di Vera non ne voleva sapere di rimarginarsi. Soffriva. Soffriva di notte e di giorno. 
Leone preparava tisane, le diceva parole di conforto ma niente. 
Poi, un bel giorno, Vera andò nei boschi dalle parti di Pozzale per raccogliere fiori. S’addentrò nella foresta e, con sorpresa, scorse Mildi. Non era solo però. Era con un folletto biondo dai lunghi capelli. Una folletta bionda e buffa e distesa su di un tronco abbattuto. Se ne stava lì con le mani dietro alla testa a guardare il cielo mentre Mildi, seduto ai suoi piedi, suonava melodie antiche con un’ocarina fatta di foglie. 
Finì di suonare, prese la mano alla sua amata, la guardò e sorrise di un sorriso che Vera non aveva mai visto. Un sorriso dolce, grande e vero. Un sorriso d’amore. 
Vera capì e il ghiaccio che le attanagliava il cuore si sciolse. 
Ritornò da Leone finalmente felice e con il cesto pieno di fiori profumati. 
Entrò in baita e si mise alla finestra. Fece un profondo respiro e distese le labbra.
Fu in quell’attimo che la mano del padre ormai anziano le si posò sulla spalla.
“l’hai visto?” chiese
“si” rispose lei
“hai capito finalmente?”
“si” rispose ancora lei. 
Leone non aggiunse altro, solo si allontanò dalla figlia. 
Vera aveva compreso una cosa molto importante. Aveva capito che amare significa lasciare andare ed essere felici per questo. Il fatto che poi una persona, o un folletto, decida di starti attorno anche tutta la vita è un miracolo che non accade quasi mai ma, se accade, è una cosa che deve nascere dalla libertà di scegliere, ogni giorno, che quella è la creatura che ami. 
Più di ieri e meno di domani. 
Per un altro giorno ancora. 
Forse per sempre, ma un giorno per volta.

Mildi, il suo naso e l'amore