Un racconto ambientato in Cadore tratto dal Romanzo “Zoe” di Francesco Vidotto, Minerva Edizioni 2013, www.francescovidotto.com
Illustrazioni di Eros Lisci
C’erano un papà e il suo bel figliolo.
Il papà, quando non andava a caccia, accompagnava il piccolo a fare lunghe passeggiate.
Percorsero insieme molti sentieri di sassi e radici e lui ci teneva a fargli conoscere la montagna.
Un giorno decisero di venire da queste parti per vedere il paese dall’alto, proprio come hai fatto tu e arrivarono di fronte a questo anfiteatro di pareti. Il piccolo lasciò la mano del padre e corse avanti e gridò: “mi senti? Mi senti montagna?” Gridò con le mani attorno alla bocca e con quanto più fiato aveva in corpo. Le sue parole colpirono la roccia e rimbalzarono tra un pinnacolo e l’altro fino in cima e il piccolo rimase stupito e ci riprovò.
Di nuovo le sue grida si ripeterono infinite volte e invasero le crepe e i pertugi della pietra e si rifletterono sugli specchi di roccia fino a raggiungere il cielo. Sulla cima più alta stava Aguzzo. Aguzzo è lo spirito della montagna ed esiste da sempre.
Se ne stava accovacciato a prendere il sole con le sue mani di roccia dietro la nuca quando aprì un occhio sentendo quella voce che lo chiamava. Si sporse dalla vetta, attento a non essere visto, e guardò di sotto. Vide piccino quel bambino nei suoi scarponi, proteso in avanti a gridare come un matto. “papà! Papà! Qui è il paradiso” urlò. Aguzzo sorrise e uno schioccare di pietre che cadono si librò nell’aria dalla sommità del monte e dei gracchi spiccarono il volo. Da quel giorno il bambino e il papà vennero spesso quassù a sedersi sul prato e ad urlare alla roccia e a guardare il cielo e il ragazzo s’ innamorò delle pareti e Aguzzo s’innamorò di lui.
Dopo l’eternità trascorsa sotto le stelle e le nevi e i cieli trasparenti e ghiacciati, finalmente c’era qualcuno da aspettare.
Da lassù osservava i due e si compiaceva di essere utile e di allietare le loro giornate. Il ragazzo crebbe ancora e divenne uomo ma non gli riuscì mai di dimenticare la montagna. Si avvicinò a lei sempre di più fino a comperare delle corde e delle scalette e dei chiodi e iniziò ad arrampicare. Prese a salire piccoli sassi e poi salti di roccia via via più alti, fino a raggiungere le prime cime. Anno dopo anno finì con il collezionare tantissime ascensioni finché, un giorno, arrivò qui, deciso a scalare queste pareti che tanto bene riflettevano il suono.
Quando lo vide, Aguzzo si affacciò e guardò in basso e non stava nelle pelle tanto lo aspettava. Lo osservò prepararsi e cominciare la salita. L’uomo piantava i chiodi e, metro dopo metro, procedeva e parlava sottovoce. Le sue parole salivano e scaldavano il cuore di Aguzzo. Dopo molte ore il ragazzo aveva quasi raggiunto la cima centrale quando posò il piede su di un sasso non ben fissato nella parete. Gli scarponi con la suola di corda non riuscirono a far presa e, non appena la pietra si mosse, scivolarono.
Le mani, sorprese dal troppo peso improvviso, si aprirono e lui cadde nel vuoto. La corda di canapa strattonò e sfilò il primo chiodo e di seguito gli altri. Aguzzo, da lassù, si accorse immediatamente del precipitare dell’amico. Più in fretta che poté sporse una mano sotto di lui, mentre cadeva, nel tentativo di aiutarlo.
La roccia prese forma e dalla montagna nacque un terrazzamento proprio sotto il giovane che ormai aveva preso velocità. Aguzzo, nel suo desiderio di salvare la vita a quel piccolo umano, non aveva fatto i conti con la propria natura di pietra. La mano era dura come il granito e quando il ragazzo vi fu sopra, vi si schiantò e si spense come una candela al vento. Aguzzo pianse e pianse e frane rovinose caddero a valle e tutto il Cadore sentì quel fragore. Poi si ritirò di nuovo nel silenzio eterno.
Gli anni trascorsero e lo spirito delle montagne non ce la faceva proprio a continuare in quel modo.
Il ricordo del suo amico lo tormentava e la solitudine gli straziava il cuore. Così decise di intrappolare nella roccia le grida delle persone che giocavano agli echi. Prese a far rimbalzare le voci ancora e ancora senza più permettere loro di abbandonare gli specchi di roccia. Le faceva rimbalzare e poi entrare nelle anguste fessure fin nel cuore della montagna e qui le imprigionava per sempre. Anche ora, mentre parliamo, Aguzzo se ne sta lassù, disteso sulla cima più alta, con l’orecchio posato a terra ad ascoltare le grida e i pensieri di gioia delle persone che vengono quassù. Tiene per sé un po’ di compagnia e sorride, ripensando al suo caro amico che uccise per sbaglio, nel tentativo inutile di salvarlo.