Pubblichiamo la lettera aperta di un giovane di Lorenzago, che racconta un brutto episodio successo la notte scorsa nel paese cadorino. Pensiamo sia giusto dare visibilità ad un fatto del genere, invitando inoltre i lettori a riflettere su quanto accaduto.
Salve a tutti/e,
voglio rivolgere queste parole innanzitutto alle persone che abitano i posti di montagna in cui sono nato, cresciuto e da cui provengo, considerando che ciò che mi è accaduto si è verificato proprio qui. L’invito è aperto inoltre a chiunque altro/a senta di avere la sensibilità e la preoccupazione per percepire i grossi pericoli e le inclinazioni che sempre più spesso si stanno manifestando in questo paese (o forse sarebbe meglio dire che il ciclo non si è mai chiuso, forse è un semplicemente un modus operandi, un pessimo modello educativo e di interrelazione 100% made in Italy).
Lorenzago di Cadore. Ore 3.40 di notte circa…
Io, un amico e mia sorella torniamo da una festa di compleanno. Un’ottima serata. Una di quelle in cui ti riporti in tasca i frammenti di riconoscenza che gli amici ti hanno donato. Per una semplice conversazione. Parcheggiamo il van nella piazzetta del paese. Siamo molto felici, siamo felici della serata condivisa. Ci guardiamo con quella consapevolezza che sgorga dai rapporti sinceri. Dalle amicizie autentiche.
Pensiamo di farci l’ultima sorsata per chiudere la serata, per andare a dormire con la soddisfazione di chi, nonostante tutto, trova le ragioni per apprezzare i momenti condivisi. Al di là di ogni sfumatura di grigio.
La media delle nostre età fa 22,3 anni.
Per non smentire l’euforia e l’incoscienza del momento, mentre stiamo in piedi fuori dall’auto ci accendiamo una sigaretta, apriamo la porta e mandiamo a volume molto alto due pezzi. Mimiamo gli strumenti, ci muoviamo e ci guardiamo precedendo gli stacchi della batteria con gli occhi che ridono. Uno è un pezzo dei Melvins, l’altro dei Black Flag se non erro.
Come si suol dire, un bel gioco dura poco. Passato il primo momento, capisco che sono quasi le 4 del mattino, che siamo circondati da abitazioni, che dentro alle abitazioni le persone ed i bambini dormono e che il giorno dopo è giorno di festa. Perciò rientro nel van e spengo la radio.
Un intervallo breve. Il mio corpo entra nell’abitacolo, preme Off. Esco e richiudo la porta.
Guardo gli altri, guardo alle mie spalle. Dietro di me arriva una persona.
È un uomo, ma non è di ritorno a casa. Lo guardo e capisco che il suo passo deciso e diretto verso di noi. Appena la sua sagoma scorre sotto la luce lo riconosco. È un uomo del paese. Rispettabile, un professionista, un uomo adulto, un padre.
È molto robusto, ha un giaccone nero. Il volto teso. Tiene qualcosa in mano, ma non capisco. Non pronuncia una parola. I suoi occhi sono imperturbabili e colmi di rabbia. Penso, fugacemente, ha ragione. Dopotutto ha ragione. E penso, cazzo abbiamo sbagliato, potevamo evitare la “bravata”.
In una frazione di secondo è dinnanzi a me. Ed allora tutto cambia.
Tiene qualcosa in mano, è un manganello nero, lucido, a occhio 40-50 cm.
Resto sbigottito, non capisco. Un manganello.
Metto le mani avanti in segno di difesa, in segno di non reazione. Voglio parlare, voglio chiarire, voglio scusarmi soprattutto.
Ma non ne ho il tempo. Mi guarda di pietra dice “ho una figlia di pochi mesi”.
Davanti agli occhi mi scorre un flash di quei film che raccontano i drammi sociali, i retroscena domestici, le case invivibili. Le urla i pianti. Le sofferenze di ogni persona, prima di indossare la maschera ed uscire al mattino. Le vite che per strada non si possono scorgere.
E penso che io non posso capire cosa significhi essere svegliato nel cuore della notte assieme alla propria figlia piccola. E mi dispiace seriamente. Voglio parlare, voglio chiarire, voglio scusarmi soprattutto. Ma non ne ho il tempo. Ho sbagliato, penso.
Mi afferra al collo, mi sbatte contro il van. Stringe, stringe forte. Mi guarda e ripete le parole. Mi guarda come un cane. Cerco mia sorella, cerco il mio amico. Sono immobili, gelidi, terrorizzati dietro a lui.
Sono terrorizzato anch’io, mi tremano le gambe. Proprio io. A volte scemo. Ma sempre pacato, innocuo. Chi mi conosce lo sa.
Dentro di me sento una scarica gelida, inizio a non respirare e sentire i conati. Inizio a non respirare. Sopra di me alla mia sinistra c’è il manganello in aria. Alto, nero, lucente, vibrante. Il potere.
Sento il collo stretto, mi sento inerme. Mi sento confuso.
Mi muovo perchè ho paura e voglio liberarmi. Mi muovo perchè voglio respirare.
Sono un essere umano. Ho 24 anni. Sono laureato. Ho la barba.
Sono trasandato forse. Ecco forse, non ho autorevolezza, non ho dignità.
Guardo i suoi occhi, e capisco. Là dentro no, non sono un essere umano.
Mi lascia, ripete le parole.
Lo guardo, come fossi fuori dal mio corpo. Come fossi un automa. Senza sentimento. La voce trema e ripeto solo “ha ragione, mi scusi, ha ragione”.
“mi scusi, mi scusi, ha ragione”.
I miei nervi sembrano dissolversi. Sciogliersi.
Torna verso casa sua.
Appoggio la schiena al van e respiro. Guardo il nulla. Guardo gli altri. Scambiamo parole senza senso. Non capisco. Non capiscono. Sento il freddo. Cos’è accaduto? Non capisco.
A letto non riesco a dormire. Il mio cuore va all’impazzata, respiro forte. Mi sento piccolo.
Penso a milioni di cose, penso a me che voglio partire e andar via. Penso alla legge. Penso alla giustizia. Penso alle lezioni di filosofia al liceo. Penso a tutti i volti dei ragazzi a cui ho dato una pacca sulle spalle qualche ora prima. Quelli che ho abbracciato. Quelli con cui ho cantato. Penso alla debolezza. Penso a questa parola “civiltà”. Penso. E mi sento ingannato, perso, senz’armi.
Oggi, alle 14.00 salgo in paese, voglio parlargli. Voglio regalargli un po’ di ciò che lui mi ha ficcato a forza nelle vene. Il terrore. Voglio descriverglielo, farglielo capire. È un padre, è un uomo.
“Non c’è, è andato a Cortina”.
Igor Verdozzi