Un racconto ambientato in Cadore tratto dal Romanzo “Zoe” di Francesco Vidotto, Minerva Edizioni 2013, www.francescovidotto.com
Illustrazioni di Eros Lisci

DUE CHIACCHIERE DI UN ALBERO..Siedo d’innanzi al fuoco acceso nel camino. Scoppietta allegro, vivo, ardendo vecchio legno di Larice profumato.
Il mio sguardo si smarrisce nelle fiamme sempre nuove, rievocando così ricordi quasi dimenticati.
Mi ritorna alla mente una passeggiata nel bosco di Tai non molti anni addietro durante la quale assistetti ad un colloquio davvero bizzarro.
Stavo camminando solo, accanto alla strada asfaltata, era novembre e tutto taceva, poi una voce attrasse la mia attenzione. Mi avvicinai a quel suono poco famigliare, sbirciai da dietro un arbusto e, con mia grande sorpresa, vidi un giovane abete, sottile e basso, che parlava con le radici del suo grande padre, proprio accanto a lui.
“Io voglio andarmene da qui” – ripeteva il giovane con insistenza – “vedere altri luoghi, essere padrone del mio tempo e del mio spazio, viaggiare, conoscere.”
“Non puoi caro figliolo” rispose ad un tratto il padre con voce profonda ed antica, sei legato alle tue radici ben fisse nel terreno”
“Queste radici, quanto le odio! Mi impediscono di essere me stesso”
“Come sarebbe? Ti nutrono. Senza di loro non saresti abete e nemmeno vivo”
“Stupidaggini, io so cosa è meglio per me, voglio essere cittadino del mondo, libero come l’aria”
“Libero? Ma sei libero! Libero di seguire la tua natura, di essere albero, di crescere forte e alto, sicuro di te, libero di generare altri alberi come noi, di dar vita ai boschi, di essere riparo per gli animali, di regalare ossigeno al cielo ed a tutti gli esseri, libero persino di seccare e morire un giorno”
“Se devo essere tutte queste cose come puoi dire che sono libero? Che siamo liberi?”
“Caro figliuolo con il tempo capirai che prerogativa per la libertà è rintracciare la propria identità. Solamente chi ha chiaro chi è può parlare di libertà. Guarda gli uomini ad esempio. Li osserviamo da centinaia e centinaia di anni. Un tempo vivevano in piccoli gruppi, fieri della propria cultura, si adoperavano nell’artigianato per soddisfare i bisogni in maniera migliore e in questo modo producevano utensili che profumavano di umanità, ciascuno legato ad un territorio, ad un paese, ad una piccola città. I figli avevano ambizioni alla loro portata e le raggiungevano con l’impegno. Poi il progresso ha dato vita alle città e qui l’uomo si è ingegnato creando le famiglie, delle piccole comunità in cui ciascuno aveva la propria importanza, in cui ciascuno trovava la propria identità, in cui l’uomo viveva il proprio futuro.
Ora invece sembra che le famiglie non esistano e noi alberi non riusciamo più a comprendere quale sia il fine ultimo dell’esistenza umana. Sentiamo il malessere dei piccoli uomini che non hanno un binario da percorrere, credono sbagliano, proprio come fai tu, che le radici siano un problema, si dimenano a tal punto da staccarsi da loro, volteggiano in aria per un breve momento convinti di volare, e stramazzano al suolo privi di linfa. Lì rimangono marcendo piano, prima dentro e poi fuori.”
Non sentii risposta da parte del giovane abete, probabilmente sta ancora riflettendo sulle parole del padre. Si dice che gli alberi abbiano ritmi di vita molto diversi dai nostri.
Quelle parole hanno accompagnato i miei pensieri a lungo, mi hanno suggerito una direzione, un’idea, una fede.
Anno fatto di un bambino un uomo. Hanno ricondotto un naufrago al suo caro e vecchio porto, magari povero e con un molo di legno scricchiolante, ma pur sempre un luogo sicuro dal quale ammirare l’immensità senza confini dell’oceano.