In occasione del Giorno della Memoria, riportiamo un’intervista rivolta a Enzo Soravia e pubblicata dal Corriere delle Alpi, che riporta la sua storia e il dramma degli internati. Soravia è conosciuto dai più (non solo a Venas di Cadore, dove vive) soprattutto per essere stato, assieme al cugino Osvaldo, il fondatore nel 1947 della prestigiosa occhialeria Idos. Enzo Soravia “Capoto” ha però ulteriori meriti: dal 2000 è presidente dell’Anei, con cui ha intrapreso la missione di mantenere viva la memoria di tanti uomini privati della propria dignità in nome di un’ideologia perversa. Nato il 3 gennaio 1923, secondogenito dei tre figli di Paolo e Angelina Toscani “Scarpitta”, ha frequentato le elementari a Venas e a Vinigo e il collegio “Dante” a Vittorio, andando poi a lavorare col padre nel settore alberghiero e del legname.
«Ricordo benissimo la dichiarazione di guerra il 10 giugno 1940, che ascoltai dalla nostra radio “Unda”, apparecchio realizzato a Dobbiaco. Eravamo io, mio padre, lo zio Marco e altri. Quando Mussolini terminò il discorso lo zio disse “l’abbiamo già persa”. Il 18 settembre fui chiamato alle armi e destinato nelle truppe alpine al 4º Regg. Genio a Bolzano, dove esisteva la scuola per radio marconisti. Frequentai il corso e fui promosso Caporal maggiore, diventando a mia volta istruttore. Tutto questo fino al fatidico 8 settembre 1943».
«Quella sera ero al cinema: improvvisamente, verso le 18, la proiezione fu interrotta e trasmisero l’annuncio di Badoglio. Pensai di fuggire, ma era impossibile, la popolazione non ci vedeva di buon occhio. Con un plotone di 40 uomini comandato da un ufficiale ci recammo di presidio alla stazione e alle 21 arrivò un’autoblinda tedesca che subito iniziò a sparare all’impazzata. Noi per fortuna eravamo nel seminterrato, altrimenti saremmo tutti morti. Cessato il fuoco, l’ufficiale tedesco ci intimò la resa, dicendo “voi avete finito la guerra, consegnate le armi”. Furono momenti terribili, eravamo abbandonati a noi stessi. Il giorno dopo ci scortarono al campo sportivo e passando sul ponte “Druso” vidi il primo morto, un bersagliere che aveva opposto resistenza. Poi all’entrata dello stadio un altro triste spettacolo: 8 morti che giacevano a terra. In quel momento capii che tutti noi non eravamo più padroni della nostra vita, ma in balia dei nazisti: una sensazione tremenda che ancora oggi non riesco a descrivere.
Eravamo alcune migliaia. In quei giorni fummo sballottati un po’ ovunque, prima sul greto del torrente Talven, poi alla caserma della Gaf (Guardia alla frontiera), dove trovai uno zaino che riempii con 3 lenzuola, 5 strofinacci e 5 pezze da piedi: era il mio corredo».
«L’11 settembre», racconta Soravia, «fummo caricati su dei vagoni bestiame per un viaggio verso l’ignoto. Il mattino del 13, alle 3, il convoglio si fermò a Fallingbostel, in Germania, e tutti fummo avviati al campo 11B, dove, fotografati e schedati, finimmo in una lurida baracca. Il mio numero era il 151075. Due giorni dopo ci armarono di pala e piccone e fino al 30 settembre ci impiegarono in lavori di sterro sotto un capannone. Il 1º ottobre in 83 attraversammo Hannover su un camion e arrivammo al campo di lavoro 6-017 di Hammel an der Weser per essere impiegati nella Kaminki Fabrik per la realizzazione di motori per aerei. C’erano prigionieri di varie nazionalità, francesi, russi, belgi, ucraini.
Noi italiani eravamo 80 e io avevo il n. 396. Il mio compito consisteva nel sistemare il così detto “castelletto”, cioè il supporto del motore con i tubi di alimentazione per l’olio e la benzina. Siccome si trattava per lo più di vecchi motori recuperati e riciclati, era facile poter fare qualche sabotaggio: bastava rimettere i tubi vecchi al posto dei nuovi così, al momento della prova, quando i giri erano al massimo, la pressione li faceva scoppiare. La fabbrica era diretta da persone anziane, tra cui Enrich Müller, che mi ha sempre trattato bene. Il cibo era giusto per sopravvivere e consisteva in un mestolo di acqua con margarina, dei cetrioli, un cucchiaio di marmellata, una fetta di salame insapore e un filone di pane da 2 kg da dividere in 8»
«Solo ai primi di dicembre del 1943 con una cartolina potei informare la famiglia che stavo bene. I miei la ricevettero il 26 dicembre e fui uno dei primi internati di Venas a dare proprie notizie. Durante la permanenza ad Hammel an der Weser assistetti a diversi bombardamenti aerei alleati e vidi precipitare diversi aerei: uno cadde addirittura a 150 metri dalla fabbrica. Fui anche mandato a colmare i crateri delle bombe e in un giorno ne contammo 54.
Il 22 dicembre 1944 fui spostato a Freiberg, presso Dresda, alla Freia G.M.b.H., dove si fabbricavano ali per aerei. Fui fortunato, perché qui vivevano dei miei parenti emigrati e soprattutto perché dall’ottobre non eravamo più prigionieri, bensì inquadrati come operai civili. Ero autista di motocarro e con un civile mi recavo nei vari casolari di campagna dove ritiravamo le bobine di filo elettrico stipate presso i contadini, in depositi insospettabili e quindi non minacciati di bombardamento. Otto giorni dopo il famoso bombardamento di Dresda, attraversai la città deserta: una vera desolazione ovunque, con bombe inesplose sulla carreggiata».
«L’8 maggio 1945 fui liberato dai russi, che non ci hanno aiutato molto. Io facevo il mercato nero tra i russi e i tedeschi, soprattutto scambiando pane con alcool. Il 15 luglio, con l’amico Gino Agnoli di Valle, decisi di tornare a casa con un sacco di 33 kg di pane. A Kamenitz c’era una tradotta di italiani, ma gli americani non ci lasciarono passare, perché si proveniva dal territorio controllato dai russi. Allora con un altro treno siamo tornati a Dresda, poi a Praga e infine a Bratislava. Qui con un lasciapassare abbiamo girato per la città, ma i soldati russi ci hanno derubato di tutto. Con un altro treno siamo scesi a Budapest e poi da qui ci siamo diretti verso la Jugoslavia, fino a Belgrado al Consolato Italiano. Tra mille difficoltà abbiamo raggiunto Trieste. A Udine, poi, fui interrogato sulle cause della cattura, infine con 700 lire di premio presi il treno per Conegliano e da qui in camion fino a Valle».
Era il 6 agosto 1945: «Smontai dal mezzo e vidi in lontananza mio padre. Ero talmente magro e dimesso che dovetti chiamarlo più volte perché mi riconoscesse».
Walter Musizza Giovanni De Donà
(fonte: Corriere delle Alpi)
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