La selezione è stata durissima. In dieci anni, nel distretto bellunese degli occhiali metà delle imprese ha chiuso: si è passati dalle 684 aziende del 2002 alle 339 del 2011, con un ulteriore scivolone a 289 nel 2012.
I grandi – da Luxottica a Marcolin, da De Rigo a Safilo – sono diventati sempre più grandi.
I piccoli sono falliti. I tranquilli, verdissimi, paesaggi dell’Agordino e del Cadore sono stati lo sfondo di una vicenda tipica del capitalismo globale. Le imprese più strutturate, con adeguati mezzi finanziari e una visione di sviluppo, intorno al Duemila hanno cominciato a delocalizzare. O meglio: invece di rifornirsi dagli artigiani e dalle Pmi del distretto, com’era sempre accaduto, sono andati a cercare materiali, semilavorati e componenti in Cina.
E li hanno trovati, a costi infinitamente più bassi di quelli italiani. Così in pochi anni l’import dall’estremo oriente è cresciuto in modo esponenziale e, sempre in modo esponenziale, si è ridotto il lavoro dei ‘terzisti’ del bellunese. Tanto che adesso le piccole unità produttive che lavorano per ditte più grandi sono sparite quasi del tutto.
Il treno ha fatto sparire i cocchieri, l’mp3 ha eliminato il vinile, il computer ha pensionato macchine per scrivere e dattilografe. Un tempo era la tecnologia a provocare mutazioni socio-economiche. Nella globalizzazione è la ricerca del profitto. E questo vale in particolare per l’occhialeria dove i macchinari, il know how e le abilità dei bellunesi restano all’avanguardia.
Leader nel mondo
Non è un caso che da molto tempo l’Italia sia il primo paese nel mondo per la produzione di occhiali, con una quota del 27% che sale al 75% nel segmento lusso e al 55% per i brand su licenza. I dati dell’Anfao (Associazione nazionale fabbricanti articoli ottici) raccontano di un settore che, malgrado la cattiva congiuntura mondiale, gode di buona salute. La produzione dell’occhialeria italiana nel 2012 è stata di 2,8 miliardi di euro con un aumento del 5,3% rispetto all’anno precedente. Un fatturato realizzato per l’80% nel distretto bellunese.
A livello nazionale, il numero delle aziende si è contratto fino a 880 unità (-2,5% rispetto al 2011), riduzione concentrata nelle Pmi e nelle aziende artigiane che più delle altre soffrono la crisi. Gli occupati sono, invece, lievemente cresciuti, +0,6%, grazie soprattutto alle assunzioni di alcune grandi aziende (Luxottica in primis): sono così 16.200 gli addetti, senza contare i lavoratori a tempo determinato, circa un migliaio, +0,6% rispetto al 2011. A trainare il comparto è stata l’esportazione aumentata del 7% rispetto al 2011 che ha raggiunto il massimo storico di 2,6 miliardi di euro.
La bilancia commerciale italiana dell’occhialeria si è confermata nel 2012 largamente in attivo (è di quasi 1,7 miliardi il saldo export-import), in aumento del 7,6% rispetto al 2011.
L’occhialeria produce il 2,5% del fatturato del sistema moda ma contribuisce per l’11% all’attivo commerciale del Made in Italy, a testimonianza della vocazione all’export del settore rispetto ad altri comparti. Ma quanto italiano è il Made in Italy? Basta dare uno sguardo alle statistiche dell’export: nel 2012 le importazioni dall’Asia sono aumentate del 7,1%, passando da 441.4 milioni a 472,7 milioni di euro (con un exploit dell’Asia Centrale che ha fatto segnare il 35% in più) che costituiscono il 68% del totale dell’import. Il che significa che una buona parte dei componenti degli occhiali è prodotta nel lontano Oriente e viene solo assemblato, o rifinito, nel distretto. Un made (partially) in Italy diffusissimo, del resto, in ogni settore della moda.
Integrazione verticale
In questo quadro generale si inserisce il modello Leonardo Del Vecchio, patron di Luxottica (vedere articolo a pagina 32), uno tra i più ricchi e potenti e forse non solo dell’Italia. Del Vecchio adotta un sistema industriale particolare: Luxottica ha al suo interno il ciclo completo, dalla progettazione ai punti vendita, come fosse Ford degli anni ‘30; concentra il lavoro in fabbriche «lineari», come un nuovo Taylor; organizza la produzione sul flusso continuo, come la Toyota del just in time. È l’integrazione verticale che si scontra frontalmente con l’organizzazione orizzontale nella quale le piccole e medie imprese si sono specializzate in componenti o specifiche lavorazioni, assemblaggio, pulitura, saldatura, verniciatura e trattamenti galvanici, produzione di minuterie, lenti, astucci e accessori. Luxottica, mentre si espande acquisendo fabbriche e reti di distribuzione in tutto il mondo, fa entrare in crisi il modello tradizionale di distretto. Non che l’italianità di Luxottica sia venuta meno. Al contrario Agordo, dove c’è il quartier generale del gruppo, resta un paese-fabbrica incastonato tra le Dolomiti che sforna centinaia di migliaia di occhiali al giorno per 30 marchi diversi (tra cui Armani, Bulgari, Ray-Ban). C’è anche la Cina, dove il gruppo produce 26 milioni di occhiali l’anno.
Luxottica ha chiuso il 2012 con un fatturato che ha superato i 7 miliardi di euro, miglior risultato della storia del gruppo, e con un utile di 545 milioni. Come ogni multinazionale coccola i propri manager: gli emolumenti di Andrea Guerra, amministratore delegato dal 2004, toccano i 4,5 milioni l’anno e ne ha ricavati recentemente altri 40 milioni delle stock option. Luigi Francavilla, presidente della società operativa Luxottica Srl e braccio destro di Leonardo Del Vecchio ne ha guadagnati 18 di milioni, sempre con le stock option. Luxottica però cura anche il welfare aziendale e ha “restituito” una quota della ricchezza ai suoi dipendenti (7.500 in Italia e 3.500 ad Agordo) attraverso polizze malattie per i dipendenti, l’acquisto dei libri di testo per i figli pagati dall’azienda, così come le vacanze e le borse di studio. Un modello di capitalismo ‘solidale’ di stile anglosassone pochissimo diffuso nel nostro paese.
Che ha avuto come effetto collaterale, certamente involontario, la crisi del distretto bellunese degli occhiali.
Verso un nuovo modello?
Già, perché la situazione diventa sempre più problematica. Le 289 aziende artigiane rimaste sul territorio registrano un calo di addetti del 18%, le 94 piccole e medie imprese hanno avuto una flessione del 5%; il 70% della galassia dei subfornitori lamenta un peggioramento dei margini. Negli ultimi due anni la maggior parte delle aziende del distretto hanno subito perdite di fatturato tra il 30 e il 50%.
Secondo molti occorrerebbe arrivare a definire un patto di solidarietà tra grandi e piccoli, per mantenere la subfornitura sul territorio, sostenere la varietà delle imprese e alimentare l’altissima specializzazione esistente. Così la pensa, per esempio, Renato Sopracolle, vicepresidente di Sipao (la sezione dei produttori di occhiali di Confindustria Belluno) e responsabile del distretto istituito dalla Regione Veneto: «Dal 2000 ad oggi c’è stata nel settore una vera e propria rivoluzione. L’effetto più vistoso è stato il forte ridimensionamento imprenditoriale che ha portato a una estrema polarizzazione: poche grandi e molte piccole aziende, soprattutto quelle che hanno scovato una nicchia nel fashion. Chi stava nel mezzo e spesso dipendeva dalla mono committenza è praticamente sparito. Dalla crisi strutturale si esce facendo innovazione, occupando nicchie di mercato, ma se la competizione viene fatta solo sui costi, è persa in partenza. Fare i semplici terzisti non ha senso, non ci si sta coi costi. E poi le grandi imprese commissionano pezzi di produzione intera, non viti e stanghette: hanno selezionato anche le forniture alle imprese terziste», continua Sopracolle. «Gli occhiali con il grande marchio si possono fare dovunque, in Italia come in Cina. Il problema è la qualità. È determinante riuscire a investire i profitti, anche pochi, nell’innovazione e nella commercializzazione». L’Occhialeria Sopracolle, 40 dipendenti, fondata nel 1967 a Perarolo di Cadore e guidata da Renato, si è specializzata nella realizzazione di occhiali, soprattutto sportivi, con una particolare ricerca nel campo dei materiali e dei colori. Produce per marchi esteri che desiderano alta qualità per una fascia di pubblico alta.
Troppe tasse sul lavoro
«Ancora oggi il lavoro incide per il 50% sul costo del prodotto: la finitura degli occhiali viene fatta a mano, sempre se parliamo di un prodotto di qualità. Capisce perché poi si va in Cina? Ma non è la stessa cosa, lo stesso prodotto che facciamo qui, nelle nostre valli», racconta Sopracolle. «Gli imprenditori medio piccoli che resistono e si sono conquistati una nicchia di mercato vanno però aiutati nella ricerca di reti distributive, di nuovi sbocchi di commercializzazione. In questo campo, le associazioni di categoria Anao, Simao, le camere di commercio, la Regione Veneto organizzano workshop in Italia e missioni all’estero per promuovere i piccoli produttori del distretto, favoriscono la loro presenza al Mido di Milano e al Silmo di Parigi (le fiere più importanti del settore). Attività molto importanti che ci permettono di farci conoscere e di conoscere i trend del settore», dice Nadia Zampol che con il marito Dario Martini guida Martini Occhiali. Fondata negli anni Ottanta a Lozzo di Cadore, 14 dipendenti, l’azienda ha il suo marchio, ma fa anche una piccola produzione conto terzi.
«L’azienda è nata dalla lunga esperienza nell’occhialeria di mio marito che disegna il prodotto, mentre io seguo il marketing e il settore commerciale. Abbiamo iniziato come terzisti, soprattutto di minuterie, ma quasi da subito abbiamo iniziato a produrre una nostra linea fashion. Per fortuna, non abbiamo avuto grandi problemi, tranne un piccolo stop nel 2008 in cui abbiamo dovuto mettere in cassa integrazione, per pochi mesi, i dipendenti. Noi realizziamo esclusivamente occhiali made in Italy al 100%, non c’è una vite, una colorazione che non sia fatta qui da noi. Unica eccezione sono i cristalli Swarovski originali, che decorano una nostra collezione da donna. La rivoluzione che c’è stata con la delocalizzazione ha certamente impoverito il distretto. Anche la concorrenza è venuta meno: se da dieci si è passati a una sola galvanica è ovvio che sarà lei a fare e a imporre i suoi prezzi».
Anche Stefano Larcher, patron di Gb occhiali, ha fatto la scelta del 100% made in Italy: realizza occhiali in acciaio nickel free sottilissimi e leggerissimi. «Si tratta di un prodotto di nicchia, che però mi permette di andare avanti», spiega Larcher. «Dal 2000 il mio fatturato si è dimezzato, ho dovuto ridurre i dipendenti da 32 a 15, azzerare ogni costo superfluo. I guadagni si sono ridotti all’osso. Il mio sforzo è quello di riuscire ad anticipare le mode, per riuscire ad allargare un pochino il mercato».
Sembra di capire che la passione (in alcuni casi la testardaggine), le competenze e il fiuto commerciale di molte piccole realtà industriali riescano a far vivere comunque il distretto. Un sistema in cui resta sì una filiera orizzontale di alta qualità ma che si basa sulla coesistenza di multinazionali e di piccoli produttori che servono una clientela ultra-lusso o target particolari. Il tutto in equilibro precario per la crisi e perché le grandi catene di distribuzione sono in mano alle multinazionali.
Che cosa è possibile fare per migliorare la situazione? «Diciamo che tutto è abbastanza complicato: la concorrenza è forte e la recessione generale non aiuta l’economia del distretto», risponde Zampol. «Noi vorremmo assumere qualche giovane, perché sul lungo periodo se non c’è un ricambio generazionale, si vanno a perdere competenze e professionalità. Ma come si fa, se non si abbassano le tasse, soprattutto quelle sul lavoro?».
«Io penso che sia importante la promozione che fanno le nostre associazioni, l’aiuto che danno nel cercare distributori all’estero. Anche abbassare le tasse e incentivare l’imprenditoria sono diventati interventi necessari come l’aria, come il pane», dice Larcher.
«L’intervento davvero risolutivo sarebbe difendere il made in Italy, controllare che ogni parte e ogni lavorazione sia fatta nel nostro paese, con tracciabilità e certificazione. Non mi pare una cosa assurda. Ma finora non si è fatto nulla».
Fonte: Espansioneonline.it