Ci sono luoghi che, per qualche strana forma di alchimia del tempo, raccolgono l’eredità di secoli di storia di un territorio; la zona di Lagole, situata sulla sponda destra del Piave nell’area di Centro Cadore nel comune di Calalzo, sicuramente rappresenta un luogo straordinario per l’intero territorio cadorino, dove si condensano elementi del mito e della storia in uno scenario naturalistico incantevole.

L’elemento caratterizzante di questa “oasi leggendaria” è sicuramente l’acqua che, grazie a particolari caratteristiche morfologiche, sgorga da una ventina di sorgenti, alcune delle quali carbonatiche, altre minerali fredde, altre ancora solforato alcaline che creano rigagnoli e laghetti, immersi in un bosco rado di conifere. Quest’ambiente destò sin dall’antichità interesse per le proprietà terapeutiche delle sue acque, prova ne sono i numerosi ritrovamenti archeologici relativi ad un luogo di culto frequentato dal VI sec. a.C. sino al IV d.C. L’area sacra, posta lungo un’importante direttrice di transito per l’attraversamento delle Alpi, acquisì ben presto i caratteri di santuario, diventando il principale centro cultuale della zona. Inoltre assunse un ruolo centrale nella vita politica locale, testimoniato da numerose dediche pubbliche da parte della comunità. A Lagole le esplorazioni archeologiche iniziarono negli anni ’40 del Novecento a seguito di una serie di ritrovamenti fortuiti: nel 1945 infatti, Alessio De Bon segnalava alla Soprintendenza del Veneto il ritrovamento di alcuni reperti rinvenuti durante i lavori presso il parcheggio gessifero; nel 1947, Enrico De Lotto aveva pubblicato la notizia del rinvenimento di alcune monete romane; in ne, nel 1949 si inaugurava uno campagna di scavo condotta da Giovanni Battista Frescura, un giovane calaltino, che da lì a poco sarebbe diventato assistente di ruolo nella Soprintendenza dove operò no al 1986.

Il 5 aprile del 1949 Frescura recupera due statuine in bronzo di tipologia venetica e un manico di simpulum, mestoli usati per libagioni o per il consumo dell’acqua, con delle iscrizioni antiche. Aveva individuato la stipe votiva lagoliana. Questi ritrovamenti infatti erano i primi di una serie di straordinarie scoperte riconducibili ad un arco temporale molto ampio che va dal VI a.C. al IV d.C. Tra i reperti rinvenuti e oggi esposti al Museo Archeologico Cadorino, particolarmente significative risultano le statuette di guerrieri nudi, con scudo e lancia in posizione di riposo, diffuse lungo tutto l’asse del Piave, a sottolineare l’importanza strategica di questa rotta a nord est. Altri oggetti significativi sono le lamine in bronzo “a pelle di bue”, attestate lungo un percorso, che dalle coste della laguna veneta giunge a Gurina in Austria, dove era presente un santuario- emporio, legato soprattutto al commercio di metalli. Questo testimonia che, all’interno delle rotte ad ampio raggio, Lagole era una tappa obbligata che svolse anche funzioni commerciali e probabilmente era punto di riferimento per altre attività, non meno importanti per questa terra, come l’allevamento e la pastorizia. In questo contesto i romani rispettarono ed assimilarono le pratiche di culto precedenti: il nome della divinità titolare fu gradualmente sostituito con quello di Apollo, che ne ricopriva le stesse funzioni, inoltre vennero mantenuti gli oggetti più rappresentativi del rito.

La vita del santuario cessò tra la fine del IV e l’inizio del V secolo d.C., probabilmente come conseguenza dell’Editto di Tessalonica. Non sappiamo se fu distrutto o semplicemente abbandonato. Come afferma Giulia Fogolari, in sintesi Lagole è “una realtà di grande significato religioso, artistico, culturale, una realtà autonoma, di forte irradiamento sia verso nord che verso sud. Realtà certo ancora da indagare, soprattutto da comprendere, per inserirla in pieno nella storia delle Alpi”. L’auspicio della studiosa è un obiettivo dei cadorini, da perseguire con intelligenza, trasmettendo i valori e il rispetto ai visitatori di questo straordinario luogo, siano essi locali o turisti.

Perché “le tenebre dell’oblio non piombano all’improvviso” ci avverte Salvatore Settis “ma vi calano da sopra, lente e malferme, come un esitante sipario. Perché il sipario scenda no in fondo, perché avvolga ogni cosa in una notte indistinta, non c’è bisogno di complicità: basta l’indifferenza. Per questo è importante, come lo è per la salute mentale e sica di ognuno di noi, cogliere ogni sintomo di smemoratezza e correre ai ripari” per preservare l’autenticità e la purezza dei nostri luoghi. Non basta guardarsi attorno e abbandonarsi alla bellezza dei nostri paesaggi, non basta chiedere alla bellezza “di salvare il mondo”, assolvendo a noi stessi ogni responsabilità. Al contrario, la bellezza va coltivata, condivisa e trasmessa ogni giorno se vogliamo che qualcosa resti per le generazioni future. “La bellezza non salverà nulla e nessuno, se non sapremo salvare la bellezza, e con essa la cultura, la storia, la memoria, insomma la vita” nella sua forma più profonda del termine.

 

Articolo tratto da IL CADORE n.5 – 2018


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