Abbiamo chiesto a Tullia Zanella, accompagnatrice presso la mostra che si è tenuta a Pieve di Cadore quest’estate, cos’è stata per lei quest’esperienza.
“Con tutte le previsioni che avrei potuto fare, mai mi sarei aspettata un’esperienza come questa. Sono una studentessa di 23 anni, che studia a Venezia, e che, come tutti, guarda al mondo del lavoro con tutta la sfiducia che caratterizza la mia generazione, che vede certi ruoli, certe responsabilità, come qualcosa di estremamente lontano e irraggiungibile. Con questi presupposti mi sono avvicinata al mondo della Fondazione Centro Studi Tiziano e Cadore, che mi ha contattata per assistere i visitatori nella comprensione della mostra: tre mesi e poco più.”
La tua mansione di accompagnatrice e di mediatrice all’interno della mostra ti ha messa a diretto contatto con molte persone?
“Mi sono stati affidati tutti i generi di pubblico, dal più colto al più spontaneo, a cui ho cercato di aprire un mondo, più che di fornire nozioni. Le oltre cinquemila persone che mi hanno ascoltato (per me, l’equivalente di un pubblico da rock star) sono state uno straordinario spaccato di popolazione, nazionale e internazionale. A sua volta tutte queste persone mi hanno restituito tutto, e a volte molto di più, di quello che ho cercato di dare loro: alcuni mi hanno dimostrato profondo apprezzamento, magari tornando per portare amici e parenti a vedere la mostra, altri mi hanno suggerito osservazioni e aspetti che non avevo considerato, altri ancora mi hanno regalato delle simpatiche considerazioni, che in una realtà accademica sarebbero inaccettabili, ma che in mostra hanno trovato l’habitat ideale.”
Si trattava di una mostra con grandi opere ed un supporto tecnologico nuovo ed innovativo per l’ambiente cadorino, sebbene l’ambiente fosse piccolo e raccolto…
“La cosa che mi ha colpito di più è proprio l’intimità dell’ambiente che mi ha permesso di demolire parte del sacrale rispetto che in molti casi tiene le persone lontano dall’arte, invitando tutti a interagire con me, a dirmi quello che vedevano e pensavano. Purtroppo le tendenze alle maxi mostre evento, che non propongono novità ma solo business, hanno abituato il pubblico a credere più o meno passivamente a quanto viene loro raccontato. La mostra è stata l’occasione ideale per coinvolgere i visitatori, facendo loro capire come funziona il mondo della critica d’arte: l’idea era quella di dare alcuni strumenti alle persone, in modo che il giudizio, seppur guidato, fosse formulato proprio da loro, convincendoli che il primo passo per un approccio costruttivo all’arte, sia proprio la capacità di ascoltarsi, di capire cosa si pensa a proposito di un dipinto, e solo dopo lo studio della teoria che lo riguarda.”
Raccontaci qualche aneddoto…
“Gli esiti hanno dello straordinario, dalle osservazioni più accurate, alle battute (volutamente tali) più esilaranti: “Ma che San Pietro sia così perché Palestinese?”, “E se quel Tobiolo così brutto fosse il ritratto di qualcuno?”, “E se Tiziano in quel caso avesse finito il colore?”. Possono far sorridere, ma a pensarci bene, queste osservazioni dimostrano che in parte l’obiettivo è stato raggiunto: nessuno si può improvvisare esperto, chiaro, ma la curiosità è nata, la molla è scattata, e l’arte diventa meno lontana, più alla portata di tutti, della loro personale ricerca e studio, della loro consapevolezza, che è indubbiamente la cosa più importante, la goccia nell’oceano della promozione e valorizzazione del patrimonio culturale italiano e non solo.”
Come ti sei preparata a questo incarico?
“A permettermi di affrontare abbastanza serenamente le difficoltà che innegabilmente ho trovato (una mostra criticamente difficile, dicevo), subentra naturalmente la mia formazione veneziana, universitaria, è ovvio (e penso soprattutto ad Augusto Gentili), ma non solo, come le esperienze al Guggenheim Museum di accompagnamento alle scuole, e la mediazione culturale presso le più diverse esposizioni lagunari. Ma a Pieve ho trovato quello che, a livello di contatto con il pubblico, a Venezia mi era sempre mancato, la reiterata vicinanza con le persone, delle quali mi era stata delegata la responsabilità: una terapia shock, se vogliamo, per una ragazza della mia età, ma che devo dire mi è servita molto. A questo proposito vorrei ringraziare, oltre, naturalmente alla Fondazione, e in particolare la Presidente, Maria Giovanna Coletti, anche tutti coloro che mi hanno supportata, dai volontari, a coloro che mi hanno dimostrato molta stima e fiducia, ma soprattutto coloro che mi hanno criticata, o nel metodo o nei contenuti: non è dal consenso incondizionato che si genera la crescita. Da certe discussioni si sono generati interessanti scambi epistolari, come per esempio l’analisi dello stemma dei Pesaro su cui un gentilissimo Conte continua puntualmente ad aggiornarmi. A farmi più del bene sono state proprio le critiche, che mi hanno permesso di correggere errori, di scoprire nuovi aspetti, di notare sfumature inedite, e alle volte, perché no, di dimostrare e consolidare le mie posizioni e convinzioni. Ho anche imparato che dal confronto e dalla cooperazione possono nascere grandi cose, anche in piccole realtà come Pieve e il Cadore, dove la volontà di un numero sempre maggiore di persone ha dato vita a un evento straordinario da molti punti di vista. Vorrei poter restituire al Cadore, quello che il Cadore mi ha dato, lavorando perché quel numero di persone si espanda sempre di più.”
Cadore e lo sviluppo di un turismo culturale: quali prospettive?
“A parer mio può funzionare nella misura in cui il turista viene per le montagne, a cui però si possano aggiungere delle iniziative culturali che siano ben fatte, che possano ampliare l’offerta turistica. Certo non c’è da sperare che la cultura diventi un fattore trainante di chissà quali folle, ma non per il Cadore, che avrebbe molto da offrire, ma proprio nello stato in cui viviamo: basti pensare che in Italia il 60% della popolazione non frequenta nemmeno un museo all’anno, e che il giornale più letto è “La Gazzetta dello Sport”. La cultura, soprattutto se seriamente intesa, non è semplice, anzi, è faticosa, quindi non adatta ad attirare le masse. Credo però che in Cadore si possano trovare le condizioni ideali (e la mostra ne è stata un esempio) per offrire un prodotto culturale valido, magari in maniera “leggera”, abbinandolo a qualcosa di vacanziero come le nostre montagne. Secondo me però il vero problema restano i cadorini: non si può promuovere ciò che non si conosce. Premetto che non mi baso sui dati, perchè ne ho pochi,ma quello che so è che la mostra ha avuto poco meno di 12mila visitatori, di cui però i cadorini sono stati pochi, rispetto al totale. Allora mi viene da chiedermi perché: di sicuro, in zona, non poteva trattarsi di mancanza di informazione, i cadorini non potevano non sapere che c’era la mostra, perché al di là della pubblicità, in una realtà così piccole fa molto il passaparola. Quindi o c’è stato disinteresse pigro, o c’è stata l’esplicita volontà di non venire. In entrambi i casi c’è da lavorare, ma, passi il disinteresse, mi lascia più perplessa la scelta di non visitare la mostra: resto convinta che perché il Cadore possa funzionare, con il turismo delle vacanze in montagna o con quello culturale, la condizione fondamentale sia la cooperazione tra i paesi, l’essere uniti al di là del ciechi campanilismi.”