Intervista al socIologo della montagna Annibale Salsa
Autonomia e ancora autonomia. Può partire solo da qui l’avvenire della montagna.
Le particolari condizioni ambientali dei territori di montagna richiedono, a garanzia del loro sviluppo sociale ed economico, l’adozione di buone pratiche di governo incentrate su ampie autonomie amministrative.
Nelle regioni alpine tali pratiche originano in epoche storiche lontane e molte di tali pratiche sono pervenute sino ai giorni nostri attraverso il meccanismo delle autonomie speciali che si sono dimostrate portatrici di modelli virtuosi di gestione.
Gli esempi delle vicine province autonome di Bolzano e Trento e anche della Regione Valle d’Aosta dove la montagna è vissuta e presidiata e dove non solo è stato possibile arrestare lo spopolamento ma i residenti continuano ad aumentare, non hanno bisogno di commenti.
È questa la fotografia che sviluppa il professor Annibale Salsa, sociologo della montagna, studioso della storia e delle trasformazioni e delle prospettive delle comunità alpine ed esperto delle problematiche che attanagliano le terre alte. Alla luce delle difficoltà che sta incontrando la montagna bellunese viene spontaneo auspicare che gli sforzi legislativi intrapresi per riconoscere una qualche forma di autonomia gestionale (legge Delrio, legge 25 e applicazione articolo 15 dello Statuto Regione Veneto, referendum autonomia Provincia di Belluno) venga applicata il prima possibile.
Abbiamo chiesto al professor Salsa perché, pur essendoci gli strumenti, l’autonomia fatica ad arrivare?
“Le difficoltà nascono dal fatto che tali norme devono trovare un punto di equilibrio con un ordinamento statuale che, pur riconoscendo a livello costituzionale la facoltà di alcuni territori di dotarsi di Statuti speciali e di un assetto regionalistico autonomo, si incardina tuttavia sul concetto giacobino di “Nazione una e indivisibile” (modello centralista). Del tutto diverso è per uno Stato di tipo federalista come la Confederazione elvetica o le Repubbliche federali di Austria e di Germania. I territori alpini di con ne vengono ancora percepiti come zone a vocazione secessionistica nei confronti dello Stato nazionale. Per queste ragioni gli Statuti speciali delle Provincie di Bolzano e di Trento vennero concessi dall’accordo De Gasperi- Gruber in quanto su tali territori insistono “minoranze” di lingua tedesca (il ladino non venne ritenuto fattore determinante). Va ricordato che le autonomie alpine medievali non erano fondate sull’alloglossia (presenza di una lingua di minoranza rispetto a quella maggioritaria), ma su basi economiche e sociali di utilizzo e di presidio della montagna. Nel caso della realtà italiana, va ribadito che l’autonomia ha funzionato nella tenuta della gente in montagna soltanto nelle Provincie autonome di Bolzano e di Trento e nella Regione autonoma della Valle d’Aosta (ricerche Censis). Questo si spiega in quanto si tratta di regioni interamente montano-alpine. Viceversa, nel vicino Friuli (che è una Regione mista di pianura e montagna) lo spopolamento (Carnia e valli pordenonesi) ha avuto esiti biblici. Da qui nascono i miei dubbi su autonomie regionali come quelle invocate da Veneto e Lombardia in quanto caratterizzate da territori misti pianura/montagna. Ben altra cosa sarebbe una provincia autonoma di Belluno! E comunque bisogna tener presente che l’autogoverno non si improvvisa da un giorno all’altro in quanto si alimenta di buone pratiche sedimentate nel tempo (Re- gole, Vicinie, Comunità)”.
Professor Salsa, credo converrà con chi pensa che se non succede nulla, la nostra montagna è destinata allo spopolamento.
“Ha perfettamente ragione. Il vero problema è lo spopolamento. La montagna vissuta e presidiata è il migliore antidoto al degrado e all’impoverimento. Finchè la montagna si troverà costretta ad oscillare fra il deserto verde (re-wilding) da un lato e la disneylandizzazione (spazio ludico) dall’altro, i problemi delle terre alte si aggraveranno. L’idealizzazione retorica della montagna accompagnata da una visione ideologizzata e poco scientifica dell’ecologia sono i problemi più grossi da risolvere. Il re-inselvatichimento o ri-naturalizzazione dei prati a causa dell’avanzata inesorabile del bosco sono sotto gli occhi di tutti ad eccezione di quelli che non vogliono o non sanno vedere”.
Professore, a questo punto non resta che chiedersi…cosa fare? Da dove cominciare?
“È indispensabile provare a ripensare criticamente e senza pregiudizi modernisti le buone pratiche del passato rivisitandone i contenuti nell’ottica di un adattamento alle condizioni attuali e future. Modelli amministrativi pensati per le città e le pianure non funzionano se applicati ai territori di montagna. Una cosa sono i rapporti montagna-pianura, da sempre fondamentali nella logica dello scambio, altra cosa è l’adozione degli stessi modelli di governance. Credo sia necessario ripartire da qui”.
Sergio Reolon sosteneva che manca la politica con la P maiuscola, capace di far squadra e di essere coraggiosa. Condivide?
“Sergio Reolon è stato un politico illuminato in quanto era immunizzato nei confronti sia dei pregiudizi localistici e strapaesani, che sempre si rivelano miopi, sia di quelli nuovistici che, in nome di un malinteso modernismo progressista, fanno della montagna una variabile da assimilare al resto del mondo. La rarefazione demografica e la marginalizzazione progressiva della montagna hanno creato quel “mondo dei vinti” che ha fatto propria la cultura della resa e della rassegnazione. Oggi vi sono segnali nuovi che in alcune realtà alpine incominciano ad essere recepiti. Occorre una nuova presa di coscienza sia da parte dei residenti che degli amministratori delle terre alte in quanto un nuovo bisogno di “montanità” si sta diffondendo ma, se non viene accompagnato dalla Politica, rischia di essere velleitario e spontaneistico.
Tale presa di coscienza deve riguardare anche la gente delle terre basse dove, da qualche tempo, sta nascendo un nuovo interesse ed una inedita consapevolezza. Soltanto così potrà nascere una nuova alleanza fra monte e piano nell’interesse generale del Paese e della collettività. Bisogna, in tal senso, puntare sulla cultura ma non in senso accademico/intellettualistico (che sulle comunità ha avuto scarse ricadute concrete ed è rimasta spesso circoscritta agli addetti ai lavori), bensì in quello della divulgazione e della restituzione come condizione pre-politica dell’agire politico. I territori e le genti delle Alpi devono dialogare fra loro. Vi è più affinità di condizioni di vita fra un cadorino ed un cuneese delle valli che fra un cadorino ed un veneto della pianura.
La montagna con la montagna!!! L’iniziativa la devono prendere i montanari, ma non in forma autoreferenziale bensì con l’ausilio di “mediatori culturali” esterni e competenti, che sappiano creare ponti fra luoghi anche lontani ma strutturalmente simili”
Articolo tratto da IL CADORE n.3-2018
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